“Pantera”: il nuovo racconto di Giulia Cantieri

Il lago è sempre calmo la notte. Almeno in apparenza. I pescatori sanno che la tranquillità attira solo più confusione. Sotto il velo dell’acqua, molteplici vite da prendere all’amo. Sotto la cupola delle stelle, aghi argentati cercano le prede.

L’aveva sentita. Non erano i pesci a muoversi, ma qualcosa di terrestre.

Se ne stava a mezzo, tra la riva e i rovi, con un piede bagnato e l’altro sporcato di fango. Sentiva dei moti felpati, rami rotti, foglie fruscianti.

Il pericolo stava nella foresta. A quell’ora non ci si poteva aspettare buona compagnia. Sicuramente non umana.

Un arbusto tremò troppo vicino. Seguì lo schiocco del legno spezzato.

Si rifugiò tra le siepi che graffiavano il viso. La canna e le sue cose dimenticate lì. Magari il felino si sarebbe distratto con quelle. Lasciò che le fronde l’avvolgessero. Attese, sperando che il momento giusto per fuggire non tardasse.

La vide comparire come l’ombra allungata dell’albero lì accanto. Sempre più dilatata, sempre più tirata, per poi staccarsi dal suo nucleo e rivelarsi. Una pantera.

La notte era il suo manto, le stelle gli occhi. Sicura procedeva verso il lago. Con movimenti armonici, alternava gli arti spinti da muscoli guizzanti. Si fermò un solo secondo per guardare gli oggetti umani. Dalle siepi si poteva intravedere un luccicore ai lati delle sue fauci.

Soffiò con il naso e immerse una zampa in acqua. La ritirò subito e la scosse lanciando schizzi. Poi fece qualcosa di strano.

La pantera era in una posizione impossibile. Come un cane che si pulisce, ma con la testa sotto l’ultima zampa, che pareva più lunga di com’era qualche secondo fa, si afferrava la coda.

Si vide di nuovo il luccichio. Poi si sentì uno strappo e si mostrarono i denti che scuoiavano il corpo a cui appartenevano. No, scuoiare non è il giusto termine. Non c’era sangue, né versi di dolore. La pantera si toglieva la pelle come se cambiasse un vestito. E nel frattempo il suo corpo si deformava. La coda spariva, gli arti diventavano lunghi, il busto corto.

Per un istante la testa non si vide più, coperta dai movimenti assurdi. Quando rispuntò stava in alto, sopra due spalle e un corpo atletico dai fianchi larghi. Due braccia e due gambe umane. I capelli lunghi le coprivano le natiche.

La donna reggeva con la mano molle la sua pelliccia, mentre con l’altra si sgranchiva il polso.

Piegate le ginocchia, rannicchiandosi, poggiò la sua veste sugli strumenti da pesca e si immerse nelle acque con movimenti lenti, misurati.

Quando il lago superò metà della sua schiena, si voltò verso i rovi, provocando uno scatto agitato a chi la osservava.

Il seno nero era contornato dall’argenteo riflesso della luna che le faceva brillare i denti senza fauci. Gli occhi erano accesi di sfida.

Sapeva che era lì? Che importava?

I capezzoli piccoli e turgidi erano evidenziati senza vergogna dalla luce dell’astro. I capelli cotonati le ricadevano per metà bagnati sulle spalle, a coprire le zone meno disarmanti della sua fisicità, risaltando quelle, di solito, più nascoste.

Si fece ammirare per un po’, parve. Poi mosse un passo e uno ancora, sempre più vicino alla riva, sempre più nuda. Il suo ventre morbido era adornato di mille perle liquide. Alcune cadevano, lasciandosi una scia, colando sulle sue forme, colando tra le sue cosce.

Quando i piedi, delicati, senza artigli, toccarono la sabbia, si poté ammirare il miracolo nella piena bellezza.

La donna si ergeva orgogliosa davanti alla siepe. Le gambe leggermente aperte, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il viso, in ombra, piegato verso il basso. Un poco dell’acqua del lago gocciolava, creando una pozza sul terreno, rendendola frutto di una macchia argentata, un portale magico.

Chi la spiava si punse maldestramente un dito. Imprecò, ma nel tentativo di ricomporsi cadde in avanti, rendendo vano il suo rifugio.

«Pescatori.» La voce della donna tremava come un ringhio.

«Non… non voglio farti del male.»

Lei rise.

«Forse io sì.» Si avvicinò e mise una mano sul petto di chi le parlava con tanta titubanza, provocandone l’immobilità. La fece passare in alto, poi in basso, come a saggiarne la carne con lunghe carezze. Si fermò quando arrivò all’ombelico.

«Non hai preso pesci.»

«N-no.» La mano bagnava le sue vesti.

«Ti potrei consolare.» La mano salì ai capelli, scompigliandoli piano e aggressiva, passando le dita fredde tra ogni ciocca.

La bocca della spia era ammutolita, il corpo non reagiva.

La donna prese le sue mani. Si sedettero sul terreno umido.

Guidò le sue dita sul suo seno. Si baciarono piano.

Poi le guidò più in basso. Si baciarono con più foga.

Man mano che il desiderio cresceva, le vesti venivano tolte, lanciate al cielo, a ritmo con le lingue e le carezze. Con i denti che mordevano le labbra e la pelle.

Le due anime spoglie si unirono bagnandosi sotto la notte e dietro i primi fasci solari.

La donna toccava con la schiena la terra. Chi l’aveva osservata, spiata e amata, poggiava la testa sul suo petto, presa da uno stordimento innaturale che rendeva offuscata la vista. Sentiva il sangue colare da un labbro.

«È stato doloroso?»

«Sanguino.» Le aveva risposto o era un pensiero?

Lei rise ancora. Si sollevò un poco, poggiandosi sui gomiti. Prese il suo viso tra le dita, stringendo il mento. La prima goccia rossa che le toccò la scapola la fece sorridere. Uno dei canini parve allungarsi.

Si alzò di scatto, lasciando cadere sul terreno sabbioso il corpo umano senza più volontà. Prese la pelliccia, la indossò sulle mani e sul volto.

Quando tornò sbavando dalla sua preda, questa agitò le gambe. Un mostro stava lì davanti, ma il respiro mancava, i muscoli fiacchi.

La girò al cielo. Con gli artigli ne incise la pancia. Un taglio netto e veloce che non meritava grida di dolore, soltanto rivoli cermesi inarrestabili.

Affondò nello squarcio entrambe le braccia feline, tirandole su non appena afferrate le viscere. Grumi di rosa sporco e molle, gocciolanti.

La vittima si dibatté debolmente e mugugnò qualcosa.

Lei alzò lo sguardo. Sorrise sotto i baffi.

Ruggì.

Si avvicinò alla testa della preda e con un morso gliela staccò di netto.

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